Fobia Sociale: cause, sintomi e cura

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Estratto dal post originale – Psicologiastrategica.com

Di Claudia Riccardi

La paura del giudizio altrui e quella di essere rifiutato può condurre, nel tempo, allo sviluppo di un vero e proprio disturbo psicologico caratterizzato da intenso evitamento sociale e affettivo, bassa autostima e rinuncia: la fobia sociale.

Che cos’è la fobia sociale?

La fobia sociale è una difficoltà psicologica molto frequente negli adolescenti e negli adulti e rientra nei disturbi d’ansia.

La caratteristica principale del fobico sociale è la paura di essere mal giudicato ed ivi rifiutato dagli altri: la persona non crede che verrà rifiutato, schernito e giudicato ma ne è in buona parte convinto!

Quali sono le cause della fobia sociale?

La bassa autostima, la tendenza ed essere duri con se stessi e l’aspettativa del giudizio altrui conduce la persona a comportarsi in un modo tale che va a confermare la sua credenza disfunzionale: si relaziona con gli altri con un atteggiamento circospetto, evitante e rifiutante proprio per prevenire ciò che più profondamente teme. Ed è proprio tale atteggiamento difensivo che crea antipatia,  giudizio negativo e rifiuto che confermano alla persona la sua aspettativa e opinione negativa.

La persona ha dunque estrema difficoltà a confrontarsi ed aprirsi con gli altri, a mostrare le proprie debolezze, a stabilire legami affettivi e di amore, prova intensi stati d’ansia e paura anticipatoria quando deve relazionarsi con qualcuno o è al centro dell’attenzione. In virtù di tale percezione e reazione la persona adotta come soluzioni tentate  l’evitamento sociale ed il controllo delle proprie sensazioni. L’evitamento delle situazioni in cui può sentirsi giudicato o sotto l’osservazione altrui è una situazione che si autorinforza e che conferma a poco a poco la propria incapacità relazionale.

La persona tende dunque ad isolarsi, ad evitare di essere osservato, di osservare gli altri e di essere al centro dell’attenzione. Quando è costretta cerca di controllarsi per non mostrare le proprie debolezze, difficoltà e paure agli altri.

I sintomi della fobia sociale

A differenza della persona timida, il fobico sociale prova una intensa paura di non essere all’altezza della situazione,  di entrare in intimità con gli altri, di mostrare le proprie debolezze e ansie ed è spesso vittima di intensi attacchi di ansia e panico riconosciuti dalla persona come irragionevoli ed incontrollabili.

In particolare la persona si sente fortemente a disagio nelle seguenti situazioni:

  • parlare in pubblico
  • fare ed accettare complimenti
  • comportarsi in modo assertivo
  • iniziare e mantenere una comunicazione
  • prendere iniziative sociali (telefonare, appuntamenti)
  • parlare con persone con autorità
  • colloqui di lavoro
  • Incontrarsi con persone poco intime o sconosciute, che stima o da cui è attratto
  • mantenere contatti visivi
  • agire davanti altre persone
  • esprimere le proprie opinioni
  • parlare in piccoli gruppi
  • esibirsi in pubblico
  • essere in spazi chiusi dove c’è gente (come ad esempio feste)
  • stare al centro dell’attenzione (ad esempio entrare in una stanza quando tutti sono seduti.

Il fobico sociale limita la sua vita in virtù delle sue paure e convinzioni: si relaziona solo con le persone con cui si sente al sicuro anche se in alcune situazioni può entrare in confidenza con persone meno conosciute perchè gli ispirano fiducia. In amore spesso se non sempre evita di uscire e relazionarsi con persone con cui si sente attratto in virtù del sicuro insuccesso atteso. Anche con le persone con cui si sente più al sicuro raramente entra in intimità e confidenza. L’attività sessuale, essendo un momento di esposizione ed intimità intensa, è per la persona estremamente pericolosa e troppo esposta al giudizio altrui.

 La cura per la fobia sociale

Molti fobici sociali in virtù della propria paura si sono costruiti una corazza protettiva che si trasforma in una vera e propria prigione: ogni evitamento conferma la propria incapacità relazionale e la credenza di non piacere agli altri aumentando l’ansia sociale.La persona colleziona fallimenti, non si arricchisce dalle esperienze relazionali e ciò alimenta la paura e la bassa autostima:  per evitare il giudizio altrui non solo finisce per ottenerlo ma rinuncia ad una vita affettiva ed emotiva piena e soddisfacente. In pratica la paura di un piccolo male lo conduce ad un male ancora peggiore.  

L’intervento psicologico strategico ha l’obiettivo di portare la persona ad esporsi con l’aiuto di strategie e stratagemmi psicologici tesi a ridurre l’ansia ed il panico. L’esposizione graduale programmata conduce la persona a poco a poco verso un vero e proprio saltus percettivo e reattivo differente.

La persona lentamente deve acquisire competenze relazionali mai acquisite, imparare a mettersi in gioco, fare i conti con i fallimenti ma anche con le vittorie. Questo è l’unico modo per superare il disturbo! Finche si continua ad evitare o a controllarsi si è imprigionati dalla paura! E come sempre  la paura vince ogni razionalità e logica ordinaria.

Solo con un intervento che segue logiche non ordinarie che aiuta a solcare il mare all’insaputa del cielo si possono produrre risultati concreti per superare la fobia sociale conducendo la persona ad avere il coraggio di mettersi in gioco correndo il rischio di perdere.

 ”Sicuramente i più coraggiosi sono coloro che hanno la visione più chiara di ciò che li aspetta, così della gioia come del pericolo, e tuttavia l’affrontano”. Tucidide

Estratto dal post originale – Psicologiastrategica.com

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La religione come patologia?

 di Maria Mantello

La religione è innocente?

Grandi filosofi, prima di Freud, avevano messo a dura prova le credenze religiose. Basti ricordare almeno, che tra ‘700 e ‘800 le basi del confessionalismo (cristiano-cattolico in particolare) erano state irrimediabilmente poste in crisi dalle acute analisi di Hume, Kant, Feuerbach, Marx, fino al celeberrimo “Dio è morto” di Nietzsche. Spazzata via ogni pretesa ontologica, visto che “l’esistenza non è un predicato deducibile da un concetto”, Dio appariva una congettura utilizzata come consolazione, controllo sociale, inibizione delle energie vitali ed intellettuali. Ma nessuno, prima di Sigmund Freud, era giunto a dissolvere la religione in patologia. Lo scandalo fu grandissimo. Non si perdonava al fondatore della psicanalisi di aver spiegato che la religione è un’illusione, dove il credente smarrisce il senso della realtà a vantaggio di fantasie psichiche, che diventano delirio collettivo nell’acquiescenza del gruppo. In Psicologia delle masse ed analisi dell’Io (1921), Freud parla di annullamento della personalità cosciente e di rapimento ipnoide degli individui, che pensano per immagini prive di riscontro empirico. Poiché nella religione, la fede è premessa, mezzo e fine, si comprende come i meccanismi d’induzione suggestionale possano essere talmente contagiosi per i credenti, da renderli impermeabili a dubbi e incertezze. “Noi crediamo per fede!” In questo motto si corazza l’automatismo psichico, mentre la singolarità annega nell’omologazione identitaria. Freud ne L’avvenire di un’illusione (1927) scrive: “Prendiamo in considerazione la genesi psichica delle rappresentazioni religiose. Queste, che si presentano come dogmi, non sono precipitati dell’esperienza o risultati finali del pensiero, sono illusioni […]. Caratteristico dell’illusione è derivare dai desideri umani; per tale aspetto essa si avvicina ai deliri psichiatrici […]. Chiamiamo dunque illusione una credenza, quando nella sua motivazione prevale l’appagamento di desiderio, e prescindiamo perciò dal suo rapporto con la realtà, proprio come l’illusione stessa rinunzia alla propria convalida ” (L’avvenire di un’illusione in Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino, 1971, pp. 170-171). Una diagnosi che disturba ancora oggi. Ma “la psicanalisi è un metodo di ricerca, uno strumento imparziale”(ibidem,p.177). Pertanto, di fronte ai meccanismi di proiezione, rimozione, razionalizzazione, sublimazione del fedele, Freud non può tacere la diagnosi sulle credenze religiose: “un narcotico con cui l’uomo controlla la sua angoscia, ma ottundono il suo cervello”. L’umanità, dovrebbe impegnarsi a liberarsi da questa illusione: usufruirebbe di energie razionali preziosissime per la costruzione della stessa “civiltà”. Ma l’ impresa è ostica, visto che “quando i problemi sono quelli della religione, gli uomini si rendono colpevoli di tutte le possibili insincerità e scorrettezze intellettuali” (ibidem, pp. 172-173). Del resto, lo stesso cardine della fede –nota Freud- non sta proprio nel “credo quia absurdum” teorizzato dai padri della Chiesa? Un’antinomia con cui hanno dovuto fare i conti i teologi di ogni tempo. Questi, sforzandosi di dare una struttura logica ai principi religiosi, si sono però invischiati in una tale ragnatela di contraddizioni e paradossi, che infine sono stati costretti a rifugiarsi nell’alveo della sovrannaturale verità rivelata: “Le prove da essi tramandateci sono contenute in scritti che di per sé comportano tutti i caratteri dell’inattendibilità. Sono pieni di contraddizioni, rielaborati, falsificati; dove ragguagliano su convalide fattuali risultano essi stessi privi di convalida. Non giova gran che affermare […] che traggono origine dalla rivelazione divina; già di per sé tale affermazione è infatti parte delle dottrine […] e nessuna proposizione può provare se stessa” (ibidem, p.167) La religione appare quindi, un esercizio filologico su verità supposte, la cui garanzia sarebbe il mistero divino. Il dio rivelato e metabolizzato nel cristianesimo, che Freud storicamente considera la “forma ultima assunta nella civiltà bianca, cristiana” (ibidem, p. 160), è una costruzione del credente, che in nome di dio inibisce ogni dubbio. Ma allora, possiamo prendere il devoto a modello di individuo compiuto, come i teologi vorrebbero? Freud utilizza una metafora: “può l’antropologo darci l’indice cranico di un popolo che segue il costume di deformare con le fasciature le teste dei bambini sin da quando son piccoli?” (ibidem, p. 187) Insomma, se in nome della fede si comprime la razionalità: “E’ proprio impossibile che una parte notevole di colpa in questa relativa atrofia l’abbia l’educazione religiosa?”(ibidem, p. 187).

Sintomatologia del Dio Padre

La dimensione di massa della fenomenologia religiosa è fondamentale per la sua diffusione, ma anche per occultarne la patologia. Riportiamo un giudizio di particolare efficacia sintetica, che Freud formula nel terzo saggio di L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1938) rispetto ai dogmi delle religioni: “portano in sé il carattere dei sintomi psicotici, ma al contempo, come fenomeno di massa, sfuggono alla maledizione dell’isolamento” (in Opere, Boringhieri, Torino, 1979, vol.11, p.407). Il credente non prova disagio per queste illusioni. Non sente il bisogno di ristabilire il senso della realtà. Considera Verità le sue credenze, perchè sa di condividerle col gruppo dei fedeli. Sfugge così al peso dell’isolamento, che è la “maledizione” di ogni altra sintomatologia nevrotica. In questa prospettiva, i rituali religiosi possono costituire un formidabile rifugio per le nevrosi individuali. In uno scritto del 1907, Azioni ossessive e pratiche religiose, Freud afferma: “Certo non sono io il primo a notare la somiglianza delle cosiddette azioni ossessive dei nevrotici con le pratiche mediante le quali il credente attesta la sua devozione religiosa. […] Coloro che eseguono azioni ossessive o cerimoniali appartengono -accanto a quelli che soffrono di pensieri, rappresentazioni, impulsi coatti- a una particolare unità clinica, per la quale abitualmente si usa il termine nevrosi ossessiva”. (in Opere, Boringhieri, 1980, vol.5, p.341). Come il nevrotico trova consolazione alla sua angoscia nella coazione a ripetere alcuni comportamenti, così il fedele nelle cerimonie religiose. Si tratterebbe appunto di una medesima “unità clinica”. Nella reiterazione ritualistica, il credente sposta e condensa fondamentali istanze pulsionali su un oggetto: il dio che adora. Freud analizza questo investimento psichico, che sta alla base della religione del Dio-padre. E’ questo un dio unico ed onnipotente, di fronte al quale il fedele si sente sempre inadeguato, così come lo era da bambino davanti alla “figura genitoriale”. Ne era dominato e per questo ha tremato. Ma ne ha ricevuto anche amore e protezione. Ha provato laceranti e ambivalenti sentimenti. Questa figura genitoriale, introiettata come potente Super-io, è traslata nella religione del Dio-Padre. E continua ad incombere anche sul figlio adulto, fragile e disobbediente, che cerca guida e conforto nel padre ideale a cui resta legato (religare = legare, da cui religione): “il motivo che la psicoanalisi adduce per il formarsi della religione è uno solo: il contributo infantile alla sua motivazione manifesta […]. Il motivo del desiderio ardente del padre coincide pertanto col bisogno di protezione contro le conseguenze della debolezza umana; la difesa contro l’insufficienza infantile lascia il suo segno caratteristico sul modo di reagire dell’adulto contro la sua fatale impotenza, ossia sulla formazione della religione” (L’avvenire di un’illusione, cit, pp. 163-164). E’ questa la spiegazione psicanalitica, ma anche storica, della nascita della religione del Dio unico: “il primitivo ha bisogno di un dio come creatore del mondo, capo supremo della tribù, protettore personale […]. L’uomo […] del nostro tempo, si comporta alla stessa maniera. Anche lui resta infantile e bisognoso di protezione persino da adulto; pensa di non potere fare a meno del sostegno del suo dio […] e quanto più grande è il dio tanto più sicura è la protezione che può donare” (L’uomo Mosè e la religione monoteistica, saggio terzo, cit, p.445). A questo Super-io deificato egli sacrifica con orgoglio, come faceva da piccolo col genitore, le pulsioni vietate per guadagnarsi approvazione e protezione. Al Dio-padre, e ai suoi officianti, il credente chiede: assoluzione dai peccati commessi ed assicurazione contro le colpe future. Così, nella dimensione religiosa, all’interno della dicotomia disobbedienza-obbedienza al precetto, manifesta la sintomatologia del “complesso del padre”. Come un nevrotico, cerca di mediare tra coazione a soddisfare le spinte libidiche e coazione ad inibirle. Impegnato a rimuovere i desideri profondi e a razionalizzarli in fobia, è schiacciato dal suo conflitto interiore. Cerca aiuto. E spera di trovarlo nel sistema di prescrizioni religiose. Qui, l’Io scambia il sacrificio con la ricompensa promessa: “L’Io si sente elevato, prova orgoglio per la rinuncia pulsionale come per un atto di gran valore. […]Quando l’Io offre al Super-io una rinuncia pulsionale, si aspetta in compenso più amore.” (ibidem, p. 435). E’ un investimento affettivo che non ammette dispersioni (altri dei). E’ ristabilita la maestà dell’Unico Dio-Padre. Così, il popolo ebraico “in una nuova ebbrezza di ascesi morale […] s’impose sempre nuove rinunce pulsionali, raggiungendo, almeno nella dottrina e nel precetto, vertici etici che erano rimasti inaccessibili agli altri popoli antichi” (ibidem, p. 450). E’ un sentimento che ritorna anche nel cristianesimo. Anzi, l’accresciuto senso di colpa per un’umanità strutturalmente peccatrice, nella “buona novella” rinsalda a tal punto l’autorità paterna, da tributarle il martirio del figlio, nella speranza di una assoluzione-redenzione universale: “siamo redenti da ogni colpa dacché uno di noi ha sacrificato la sua vita per assolverci” (ibidem, p. 451). Se per gli ebrei è centrale la partecipazione al progetto di Dio sulla terra e, in questo impegno il popolo ebraico si sente eletto; per i cristiani subentra la liberazione di essere i redenti. Non a caso, in questa religione assume preminenza un Dio Padre Amore, che compensi la sottomissione-espiazione richiesta con un rassicurante valore di senso dato all’Universo. Un Dio onnisciente ed onnipotente con cui annebbiare la individuale responsabilità della scelta e tenere in scacco le incognite e le paure della fatica di vivere. Un Dio-Provvidenza che compia il suo disegno finanche in un’altra vita. Esaurita quella biologica, il credente anela infatti ad una perfetta quanto infinita beatitudine, come compimento vero ed ultimo dell’universale provvidenza: “Alla fine tutto il bene trova la sua ricompensa e tutto il male la sua punizione, se non già in questa forma della vita, nelle ulteriori esistenze che cominciano dopo la morte. In tal modo tutti i terrori, le sofferenze e le asperità della vita sono destinati alla cancellazione[…]”; “Mediante il benigno governo della Provvidenza divina, l’angoscia di fronte ai pericoli della vita viene calmata, l’istituzione di un ordine morale universale assicura l’appagamento dell’esigenza di giustizia, che nella civiltà umana è rimasta così spesso inappagata, il prolungarsi dell’esistenza terrena mediante una vita futura istituisce la struttura spaziale e temporale in cui questi appagamenti di desideri devono trovare il loro compimento” (L’avvenire di un illusione, cit., pp. 159; 170). Un’aspirazione alla felicità alienata e sublimata in una mitica anima, purificata da tutta una vita di inibizioni offerte in sacrificio, ma che alla fine prenda posto accanto al Dio-Padre-Provvidenza nell’immaginifico cielo. Qui, senza più corpo che spinga agli appetiti pulsionali (peccati), sarà finalmente pacificata in seno al Super-io deificato. E’ l’adempimento della escatologia, di cui il fedele può avere qualche sentore nell’Eucarestia.

Banchetto Totemico e Banchetto Eucaristico. Dalla religione del padre a quella del figlio

In Totem e Tabù (1913) Freud prende le mosse dalla teoria darwiniana sull’orda primordiale. Al pari di altri primati, i nostri più remoti progenitori sarebbero vissuti in branchi, dominati da un capo-maschio. Un padre-padrone tirannico e geloso, che possedeva le donne del clan e le teneva gelosamente lontane dagli altri maschi. La lotta per sostituirsi al capo era crudele e poteva concludersi con la sua uccisione. Fin qui Darwin. Freud, alla luce della sua esperienza analitica e servendosi anche di fondamentali studi di etnologia (in particolare di W. Robertson Smith), ricompone in una trama unitaria i vari tasselli antropologici sull’orda primordiale. Egli nota, che tutte le società primitive sono accomunate dalla cerimonia del banchetto totemico, in cui i membri della tribù uccidono e mangiano un animale sacro ad un dio o simbolo del dio stesso. Questo rituale, che rappresenta l’unitarietà sacra del clan, può essere letto come metabolizzazione della drammatica ribellione al padre-padrone dell’orda, motivata dalle spinte libidiche dei figli, continuamente represse anche con la punizione (reale o minacciata che fosse) dell’evirazione. Antichissimo era dunque quel complesso di castrazione, che, come effetto dei sensi di colpa connessi al complesso di Edipo, la psicanalisi riscontrava in tanti piccoli pazienti. Si trattava di una paura ancestrale, che veicolata in tanta mitologia classica, conserva traccia simbolica nella stessa circoncisione. Nell’orda primordiale, quindi, bisognava scavare più a fondo. E Freud arriva alla conclusione, che i rituali del banchetto totemico evocassero l’uccisione del padre-capo dell’orda da parte dei figli ribelli, che ne avrebbero mangiato il corpo, nella credenza tipica delle comunità antropofaghe di assimilarne la potenza. Ucciso il padre, il branco si sarebbe trovato però senza protezione e in preda a lotte fratricide per la conquista del potere. In questo contesto sarebbe maturato un senso di colpa collettivo, che avrebbe portato il gruppo a darsi regole basilari. Si sarebbe così imposta una sorta di “ubbidienza postuma” alla legge del padre. Di qui i due tabù delle società primitive: divieto di profanare il capo (padre-totem) e divieto d’incesto. Il banchetto dell’orda primordiale deve essere avvenuto, ma –precisa Freud- anche se fosse solo un prodotto dell’immaginario collettivo, non cambia la sostanza degli ancestrali conflitti libidici con cui ogni essere umano continua a misurarsi. C’è un legame dunque, tra i primi desideri del bambino e quelli delle società primitive, perché “i fondamentali comandamenti del totemismo, le due prescrizioni che ne costituiscono il nocciolo, cioé la proibizione di uccidere il totem e quella di sposare una donna dello stesso totem, coincidono, nel contenuto, con i due crimini di Edipo, che ha ucciso il padre e sposato la madre. […] il sistema totemico è sorto dalle condizioni del complesso di Edipo” (Totem e Tabù, Newton, 2005, p. 167). Ma le tracce mnestiche di quel banchetto non si sono esaurite nella mitologia pagana che ne conserva memoria. Esse sopravvivono nel sacramento eucaristico. Qui avverrebbe però una singolare inversione dei ruoli: è il figlio Cristo ad essere sacrificato al padre per rimediare alla colpa originaria: “sacrificando la propria vita, egli redense tutti i suoi fratelli dal peccato originale. […] viene rimesso in vita l’antico banchetto totemico in forma di Comunione, in cui i fratelli riuniti si cibano della carne e del sangue del figlio, e non del padre, per santificarsi e identificarsi con lui” (ibidem, pp. 185-186). E non è di secondaria importanza che il Figlio sia casto. Solo così può provare al padre il superamento del Complesso di Edipo: “La riconciliazione col padre è tanto più completa in quanto, contemporaneamente al sacrificio, si proclama la rinuncia alla donna, che è stata la causa della ribellione contro il padre” (ibidem, p. 186). In questa sottomissione del Figlio al Dio-padre, tuttavia, trapelano alcune ambiguità. Nel mito cristiano, Gesù è egli stesso Dio, incarnatosi per volontà del Dio-padre. E’ dunque a tutti gli effetti Dio: accanto al Padre, ma identico al Padre. Così, pur nella riproposizione del Dio unico, ritorna l’incontenibile psicologica aspirazione del figlio a prendere il posto del padre: “Nello stesso tempo e con lo stesso atto, il figlio, che offre al padre l’espiazione più piena, realizza i suoi desideri contro il padre. Diviene egli stesso dio accanto al padre, o meglio al posto del padre. […] Ma la Comunione cristiana è, in fondo, una nuova soppressione del padre, una ripetizione dell’atto che richiede espiazione” (ibidem, p. 186). L’Eucaristia ricorda fin troppo la vittoria dei figli sul padre. Il mito di Cristo sostituisce all’orda paterna l’alleanza del clan fraterno. La religione del padre, sviluppatasi col monoteismo ebraico, è trasformata dal cristianesimo in quella del figlio, perchè la morte del figlio: “volta apparentemente alla riconciliazione col Dio padre, finì col detronizzarlo e sopprimerlo. Il giudaismo era stato la religione del Padre, il cristianesimo diventò una religione del Figlio. L’antico Padre divino si ritirò dietro Cristo, e al suo posto venne Cristo, il figlio, proprio come ogni figlio aveva sperato in èra remota”(L’uomo Mosè e la religione monoteistica, cit., p 409). Tuttavia non è annullato il senso di colpa per la disobbedienza al padre primigenio. Anzi, questa colpa è divenuta genetica: “Paolo, un ebreo romano di Tarso, ricuperò questo senso di colpa […]. Chiamò questa il ‘peccato originale’ […]. Con il peccato originale la morte venne nel mondo. […] Ma non si ricordava l’assassinio, si fantasticava piuttosto la sua espiazione, e perciò questo fantasma poteva essere salutato come messaggio di redenzione (vangelo)”(ibidem, p. 408). Ma nel fantasma della genetica colpa originale, che ha preteso la morte del dio-figlio e che suppone l’espiazione eterna di ogni altro figlio-creatura di dio, permangono tutte le irrisolte conflittualità connesse al “complesso del padre”. La psicanalisi ha rivelato come il mistero della religione sia questo complesso.

Fine dell’illusione religiosa. Più scienza meno fede

Freud, in L’avvenire di un’illusione mette in bocca ad un’ipotetica controparte un luogo comune (riproposto da qualcuno ancora oggi) sulla religione baluardo della ‘civiltà’: “Le dottrine religiose non costituiscono materia su cui si possa cavillare come su qualsiasi altra. La nostra civiltà è costruita su di esse, il mantenimento della società umana ha come presupposto che, nella maggioranza, gli uomini credano alla verità di tali dottrine. Se viene loro insegnato che non esiste alcun Dio onnipotente e giustissimo, che non vi è ordine divino dell’universo e vita futura, gli uomini si sentiranno esenti da ogni obbligo di conformarsi ai precetti della civiltà ”(cit, p. 174). Freud invita a riflettere sull’assunto religione = civiltà. Se fosse vero, gli individui dovrebbero essere sempre pacificati all’interno degli ordinamenti statuali. Inoltre, se la religione fosse davvero portatrice di civiltà, nel mondo non ci sarebbero state (né dovrebbero esserci) contese, guerre, ingiustizie. Tutto sarebbe perfettamente “morale”. Al contrario, poiché: “nella religione l’immoralità ha trovato in tutti i tempi sostegno non meno della moralità […] c’è da chiedersi se non ne abbiamo sopravvalutato la necessità per il genere umano e se facciamo cosa saggia a fondare su di essa le nostre esigenze civili” (ibidem, p. 178). Freud, che vive in contesto dove stanno prendendo corpo grandi rivendicazioni e scontri sociali, sottolinea inoltre, che l’uso della religione come grande imbonitore di massa non funzionerà a lungo, perchè gli oppressi si accorgeranno dell’inganno. Allora, ci sarà il rischio che le legittime aspirazioni alla libertà e alla giustizia sociale esploderanno in modo incontrollato e, proprio come avviene per le pulsioni represse, le conseguenze potrebbero essere devastanti per ogni convivenza civile. Tutto questo dovrebbe far pensare al fatto, che forse: “converrebbe senz’alcun dubbio lasciare Dio del tutto fuori dal giuoco e ammettere onestamente l’origine puramente umana di tutti gli ordinamenti e di tutte le norme civili” (ibidem, p. 181). L’attenzione si sposterebbe allora sugli individui storici. E questi non potrebbero più celarsi dietro misteriosi disegni divini che li sollevino dall’ignavia di non fare quanto è nelle loro (nostre) effettive possibilità. Quando non c’è la consolazione del cielo, diviene imperdonabile non provare a costruire una vita più felice per ognuno: “Distogliendo […] dall’al di là le sue speranze e concentrando sulla vita terrena tutte le forze rese così disponibili, l’uomo probabilmente riuscirà a rendere la vita sopportabile per tutti e la civiltà non più oppressiva per alcuno” (ibidem, cit. p. 190). In questo la scienza avrà un ruolo determinante. Di fronte ad essa, piaccia o non piaccia, la religione è destinata a ritirarsi, fino ad esaurirsi: “Crediamo che sulla realtà dell’universo il lavoro scientifico possa apprendere qualcosa, tramite cui possiamo accrescere il nostro potere e ordinare la nostra vita […] mediante numerosi e importanti successi la scienza ci ha dato la prova di non essere un’illusione. Essa ha molti nemici dichiarati, e assai più nemici nascosti, che non possono perdonarle di avere indebolito la fede religiosa e di minacciare di abbatterla. […] No, la nostra scienza non è un’illusione. Sarebbe invece un’illusione credere di poter ricevere altronde ciò che essa non può darci” (ibidem, pp. 195-196). Progresso della scienza, riduzione dell’ignoranza e promozione sociale, saranno le vie maestre su cui si incamminerà la ragione per affrontare la vita. E perchè questo avvenga: “vale la pena di fare il tentativo di un’educazione irreligiosa […] L’uomo non può rimanere sempre bambino, deve alla fine avventurarsi nella ‘vita ostile’. Questa può essere chiamata l’educazione alla realtà” (ibidem, pp. 188-189). E’ la terapia di liberazione dalla nevrosi della fede. E perché ognuno possa fare a meno del “dolce veleno” della religione, bisognerà che si disintossichi dal “complesso del padre”. Due differenti concezioni del mondo si fronteggiano: l’una considera l’essere umano eterno minore, bisognoso di un padre eterno che lo indirizzi e lo domini; l’altra ha fiducia nella ragione e nelle capacità di ciascuno per gestire autonomamente il peso della libertà. La sfida è tutta qui. E la partita è ancora aperta. Ma con Freud, possiamo essere abbastanza ottimisti: “da supporre che l’umanità supererà tale fase nevrotica (religione –ndr.) così come, crescendo, molti bambini guariscono della loro analoga nevrosi ”( ibidem, p. 193). L’illusione religiosa è destinata ad esaurirsi, perché: “la voce dell’intelletto è fioca, ma non ha pace finché non ottiene ascolto. Alla fine dopo ripetuti innumerevoli rifiuti, lo trova. Questo è uno dei pochi punti sui quali si può essere ottimisti per l’avvenire dell’umanità” (ibidem, p. 193). Queste le conclusioni del grande ebreo ateo. Attualmente le cose sembrerebbero andare in senso opposto. Almeno stando al successo delle adunate papiste, o a quelle dei predicatori di massa. Ma, visto lo scarto esistente tra precetti religiosi e reali comportamenti individuali (dei fedeli compresi), è forse legittimo sospettare che la religione celebri in tanta ostentazione massmediatica un qualche disagio. E questo probabilmente forse serpeggia anche nei palazzi vaticani, se papa Ratzinger, ha dovuto ammettere di fronte al male totale della Shoah, che quantomeno Dio è stato in silenzio. Un silenzio ancora più inquietante, se interpretato come provvidenziale assenso. Se così fosse, per Dio come garanzia della morale individuale e collettiva (civiltà) ci sarebbe ben poco spazio. E’ la fine di ogni teodicea. Nata per rafforzare Dio, con la sua stessa pretesa di affermare la giustizia del progetto divino nel mondo, alla fine ha messo in crisi ogni possibilità di legittimare l’esistenza stessa di Dio. A meno che (eresia), non si consideri sul palcoscenico del mondo dio protagonista anche del male. Oppure si affermi che la religione è un’illusione. Chiuso il sipario! Per mancanza dell’attore protagonista.

Vittorio Guidano en “la belleza del pensar”

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(1 de 6) (sottotitoli in italiano)

En esta entrevista Cristián Warnken conversa con Vittorio Guidano (1946-1999) sobre la psicología y la psicoterapia cognitiva post-racionalista. El Dr. Guidano fue profesor y supervisor de Inteco, donde enseñó y difundió su modelo de terapia cognitiva post-racionalista para Chile y los paises de habla hispana Entrevista realizada en 1995 en el programa ” La Belleza de Pensar”. Inteco agradece a Cristián Warnken por su autorización para difundir este video. En esta entrevista Viitorio Guidano conversa sobre la época moderna y post-moderna y las diferentes concepciones del hombre que derivan de ellas. También se refiere a los cambios epistemológicos, el paso del racionalismo al post-racionalismo. Entender el conocimiento como construcción y no como representación. El cambio en la relación entre el observador y lo observado. Posteriormente se aborda el tema de la terapia cognitiva post-racionalista donde el paciente se ve como alguien estable, que sigue sus reglas de funcionamiento y como un sistema que se autoorganiza. En esta terapia el paciente es confirmado como persona , como alguien que tiene recursos, pero que en ese momento no estan disponibles. El rol del terapeuta También se tocan temas como nuestro ser primates parlantes, las emociones humanas, la teoría del apego, el lenguaje y con ello la conciencia y la autoconciencia.

Costruttivismo post-razionalista

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Il costruttivismo o cognitivismo post-razionalista (CPR) è stato fondato dallo psicanalista e psichiatra Vittorio Guidano negli anni ’80 e proseguito insieme con un cenacolo di psicoterapeuti che si riunirono nella “scuola Guidano” che hanno proseguito la sua opera e  ricerca anche dopo la morte, avvenuta nel 1999.
L’orientamento teorico si basa sui presupposti epistemologici del razionalismo critico e dell’epistemologia evolutiva e sulla centralità che viene attribuita alle emozioni all’interno del processo di conoscenza umano.

Il CPR rifiuta l’epistemologia di matrice nordamericana e quella psicoanalitica europea, ponendosi invece in linea con la tradizione psicologica costruttivista e con quella pragmatista di origine anglosassone. I principali scienziati che hanno influenzato a livello psicologico e psicoterapeutico il modello cognitivo post-razionalista sono Charles H. CooleyGeorge MeadJerome BrunerJohn BowlbyGeorge Kelly e Sylvan Tomkins. Mentre, a livello epistemologico, i principali autori sono individuabili in Michael PolanyiImre LakatosKarl Popper e Walter Weimer.

Il ricercatore che maggiormente ha influenzato il pensiero di Guidano – a partire dalla pubblicazione di The Self in Process. Toward a Post-Rationalist Cognitive Therapy (1991), fino agli ultimi sviluppi teorici prima della morte – è stato Jerome Bruner, uno dei pionieri dello studio del pensiero narrativo negli USA.

Il superamento del paradigma empirista

Il cognitivismo post-razionalista si differenzia nettamente dal cognitivismo razionalista e dal neocomportamentismo, per il superamento del paradigma empirista: la realtà psicologica, in questa matrice epistemologica, non viene più ritenuta oggettiva ed oggettivamente definibile, bensì è considerata come il prodotto dell’interazione tra osservatore e ambiente. L’individuo che osserva non reagisce semplicemente agli stimoli dell’ambiente, ma è in grado di rappresentarsi l’ambiente stesso.

Il paradigma empirista prevedeva una realtà unica e universale, uguale per tutti ed esistente indipendentemente dall’osservatore; L’individuo è passivo e risponde ad un ordine esterno in cui il senso delle cose è oggettivo, e la mente umana si comporta come mero “recettore”, più o meno preciso, di quest’ordine esterno. A tale paradigma, il cognitivismo post-razionalista contrappone invece una nozione di complessità in cui gli individui si autodeterminano e si autorganizzano secondo regole uniche e particolari, che evolvono e mutano rimanendo però sempre all’interno dei principi che gli sono propri.

Dalla prima alla seconda cibernetica

La nozione di complessità segna anche il passaggio dalla prima alla seconda cibernetica: secondo la prima cibernetica esiste una realtà esterna oggettiva e indipendente dall’osservatore. Negli approcci sistemici del cognitivismo post-razionalista, il sistema, cioè l’insieme degli elementi che si trovano in interazione nella realtà osservabile, è globale, dinamico e costituito dai due subsistemi Individuo/Ambiente.

Ciascuno dei due subsistemi evolve secondo la propria logica ed attua le proprie trasformazioni; ma è l’altro subsistema che determina le condizioni che definiscono la trasformazione che ciascun subsistema attua.

Nella seconda cibernetica oggetto e soggetto, conoscente e conosciuto fanno parte dello stesso sistema. L’individuo e l’ambiente non sono più considerati sedi di proprietà la cui individuazione e descrizione è affidata alla competenza dell’osservatore esterno, ma sedi di meccanismi governati da regole loro proprie, che determinano il repertorio delle reciproche interazioni. La realtà, non più indipendente dall’osservatore che la costruisce attivamente, diviene la realtà personale di ogni individuo, ed ogni visione personale della realtà deriva da una specifica relazione tra conoscente e conosciuto, che riflette specifici vincoli autoreferenziali. L’individuo diviene così un sistema conoscitivo dotato di una sua coerenza interna in grado di filtrare la realtà, e strutturato attraverso un insieme di costrutti e credenze che gli permettono di organizzare il proprio comportamento in risposta all’ambiente, sempre secondo i propri vincoli autoreferenziali.

Aspetti fondamentali del cognitivismo post-razionalista

Nella teoria di Guidano sono fondamentali due concetti:

  • La teoria motoria della mente. Essa sostiene che la mente non è un semplice elaboratore passivo di informazioni, ma costruisce attivamente la realtà attraverso l’interazione con gli stimoli dell’ambiente circostante ed attraverso l’interpretazione e la classificazione di tali stimoli, basandosi sempre sull’organizzazione di schemi cognitivi che delineano l’organizzazione cognitiva del significato personale.
  • La conoscenza tacita. Essa è costituita dalle regole non verbali, inconsapevoli, che organizzano la percezione della coscienza di Sé, la visione del mondo e la temporalità esistenziale in forma narrativa.

Il Sé, per Guidano, ha una storia evolutiva ed ontologica, e il senso di Sé emerge come risposta alle pressioni selettive che si hanno all’interno di un ambiente intersoggettivo.

Non solo direi che il Sé implica sempre un senso dell’altro e, in generale, degli altri, ma di tutto quello che non coincide con il Sé, del mondo.” [3]. Ed ancora, aggiunge: “Il significato si produce soltanto grazie all’interazione conversazionale che l’individuo ha con gli altri. Il significato si produce nella trama narrativa delle conversazioni di cui è composta la vita umana (…). Il significato è il modo con il quale il Sé organizza la propria esperienza, costituisce un modo di darsi coerenza e consistenza nel contesto al quale appartiene.” [4].

L’emergere del Sé e quindi la costruzione dell’identità personale, è strettamente connessa all’evolversi della conoscenza e allo strutturarsi dei processi conoscitivi. Il punto centrale per comprendere le dinamiche che coinvolgono l’emergere del Sé, va ricercato nella nozione di auto-organizzazione; secondo questo principio, gli individui organizzano sé stessi, attribuiscono senso alla realtà ed agiscono, con lo scopo di preservare la propria identità e integrità.

L’evolversi nel tempo di un sistema conoscitivo individuale va considerato perciò come un processo autorganizzantesi che, per mezzo del graduale sviluppo delle capacità cognitive di ordine superiore, struttura progressivamente un senso pieno e irriducibile di identità personale, strettamente connesso ad un senso altrettanto irriducibile di unicità e continuità storica. La continuità e la coerenza con cui ogni individuo percepisce il proprio Sé, è frutto del processo di auto-organizzazione in termini di coerenza interna; processo che fa sì che tutte le possibili pressioni per un cambiamento, derivanti dalla continua assimilazione d’esperienza in relazione all’ambiente circostante, siano subordinate al mantenimento dell’ ordine esperienziale (e quindi dell’organizzazione di significato personale).

La continua assimilazione dell’esperienza nel tempo aumenta progressivamente la complessità interna del Sé, portando l’individuo a livelli più integrati di conoscenza di sé e del mondo.

Bibliografia minima

Alla ricerca della felicità

A cura della Dott.ssa E. Maino

Le emozioni sono componenti fondamentali della nostra vita, da esse, sovente, traiamo gli stimoli che muovono le nostre giornate. Seppure ogni singola emozione sia importante e permetta a chi la sperimenta di sentirsi vivo, l’uomo è soprattutto alla ricerca di quelle sensazioni ed emozioni che lo facciano star bene e lo appaghino, in una parola è alla ricerca di quello stato emotivo di benessere chiamato felicità . Quest’ultima è data da un senso di appagamento generale e la sua intensità varia a seconda del numero e della forza delle emozioni positive che un individuo sperimenta.

Questo stato di benessere, soprattutto nella sua forma più intensa – la gioia – non solo viene esperito dall’individuo, ma si accompagna da un punto di vista fisiologico, ad una attivazione generalizzata dell’organismo.

Molte ricerche mettono in luce come essere felici abbia notevoli ripercussioni positive sul comportamento, sui processi cognitivi, nonché sul benessere generale della persona. Ma chi sono le persone felici? Gli studi che hanno cercato di rispondere a questa domanda evidenziano come la felicità non dipenda tanto da variabili anagrafiche come l’età o il sesso, né in misura rilevante dalla bellezza, ricchezza, salute o cultura. Al contrario sembra che le caratteristiche maggiormente associate alla felicità siano quelle relative alla personalità quali ad esempio estroversione, fiducia in se stessi, sensazione di controllo sulla propria persona e il proprio futuro.

Le emozioni: IL COLORE DELL’ESISTENZA

Le emozioni sono componenti fondamentali della nostra vita, danno colore e sapore all’esistenza, anche se, in una civiltà come quella occidentale impostata sul primato della ragione, spesso sono considerate con sospetto e timore. Del resto non potrebbe essere altrimenti: infatti se la ragione promette all’uomo il dominio su se stesso e le cose, le emozioni spesso producono turbamento e conflitto, non sono mai totalmente controllabili e a volte ci trascinano a dire o fare cose di cui, una volta cessato l’impeto emotivo, ci si pente. Eppure, sono le emozioni che ci fanno gustare la vita ed è proprio dalle emozioni, piccole o grandi che siano, che l’individuo spera di ricavare nuovi stimoli che muovano le sue giornate. Del resto come si potrebbe dire di vivere appieno se non si sperimentassero mai la gioia, il tremito dello smarrimento o della paura, l’impeto della passione, l’abbandono alla nostalgia, il peso e la disperazione provocate dalla sofferenza?
Tuttavia, seppur ogni singola emozione sia importante e permetta a chi la sperimenta di sentirsi vivo, l’uomo è soprattutto alla ricerca di quelle sensazioni ed emozioni che lo facciano star bene e lo appaghino, in una parola è alla ricerca di quello stato emotivo di benessere chiamato felicità .

FELICITA’: alcune definizioni

Il tema della felicità appassiona da sempre l’umanità: scrittori, poeti, filosofi, persone comuni, ognuno si trova a pensare, descrivere, cercare questo stato di grazia. Per tentare di definire questa condizione alcuni studiosi hanno posto l’accento sulla componente emozionale , come il sentirsi di buon umore, altri sottolineano l’aspetto cognitivo e riflessivo , come il considerarsi soddisfatti della propria vita. La felicità a volte viene descritta come contentezza, soddisfazione, tranquillità, appagamento a volte come gioia, piacere, divertimento.

  • Secondo Argyle (1987), il maggiore studioso di questa emozione, la felicità è rappresentata da un senso generale di appagamento complessivo che può essere scomposto in termini di appagamento in aree specifiche quali ad esempio il matrimonio, il lavoro, il tempo libero, i rapporti sociali, l’autorealizzazione e la salute.
  • La felicità è anche legata al numero e all’intensità delle emozioni positive che la persona sperimenta e, in ultimo, come evento o processo emotivo improvviso e piuttosto intenso è meglio designata come gioia . In questo caso è definibile come l’emozione che segue il soddisfacimento di un bisogno o la realizzazione di un desiderio e in essa, accanto all’esperienza del piacere, compaiono una certa dose di sorpresa e di attivazione (D’Urso e Trentin , 1992).

Cosa succede quando siamo felici?

Tutti noi, in misura più o meno accentuata, proviamo emozioni, in un certo senso le agiamo a livello di comportamenti più o meno visibili e consapevoli, le condividiamo con gli altri parlando o scrivendo di esse, alcuni riescono perfino ad immortalarle nelle opere d’arte.
Ma cosa succede dentro e fuori di noi quando siamo felici?

  • Alcuni autori (Maslow , 1968; Privette , 1983) riportano che le sensazioni esperite con più frequenza dalle persone che si trovano in una condizione di felicità o di gioia sono quelle di sentire con maggiore intensità le sensazioni corporee positive e con minore intensità la fatica fisica, di sperimentare uno stato di attenzione focalizzata e concentrata, di sentirsi maggiormente consapevoli delle proprie capacità.
  • Spesso le persone felici si sentono più libere e spontanee , riferiscono una sensazione di benessere in relazione a se stesse e alle persone vicine e infine descrivono il mondo circostante in termini più significativi e colorati.
  • Inoltre le persone che provano emozioni positive, quali ad esempio gioia e felicità, a livello fisiologico presentano un’attivazione generale dell’organismo che si manifesta con un’accelerazione della frequenza cardiaca, un aumento del tono muscolare e della conduttanza cutanea e infine una certa irregolarità della respirazione.
  • In ultimo chi è felice sorride spesso . In effetti il sorriso, sovente accompagnato da uno sguardo luminoso e aperto, è la manifestazione comportamentale più rappresentativa, inconfondibile e universalmente riconosciuta della felicità e della gioia.

Chi sono le persone felici?

Probabilmente chiunque, passando in rassegna le persone che gli sono vicine, è in grado di identificare tra tutte un amico, un parente o un conoscente che è considerato da tutti la persona felice per antonomasia, la persona che non perde il buonumore anche quando deve affrontare delle situazioni difficili o fastidiose, quella che ha sempre la battuta pronta e che sembra serena in ogni circostanza.
Ma la felicità da cosa dipende? Esistono delle caratteristiche dell’individuo che lo rendono maggiormente permeabile a sentimenti di felicità e gioia piuttosto che a sentimenti negativi?
E’ molto difficile, probabilmente impossibile, rispondere in modo sufficientemente accurato a tali quesiti. Tuttavia le ricerche sulla felicità mettono in luce come essere più o meno felici non dipende in modo diretto da variabili anagrafiche come l’età o il sesso, né in misura rilevante dalla bellezza, ricchezza, salute o cultura. Al contrario sembra che le caratteristiche maggiormente associate alla felicità siano quelle relative alla personalità e in particolare quelle relative all’estroversione, alla fiducia in se stessi, alla sensazione di controllo su se stessi e il proprio futuro (D’Urso e Trentin , 1992).
Secondo Argyle e Lu (1990) la persona estroversa è più felice perché ha più rapporti sociali, fa amicizie più facilmente, partecipa ad un maggior numero di attività pubbliche e collettive dove trova maggiori motivi di interesse e divertimento. Inoltre una persona felice è anche una persona che sta bene con se stessa e che ha fiducia nelle sue capacità e percepisce una fondamentale congruenza tra ciò che è e ciò che vorrebbe essere. In sostanza, più le persone riescono ad accettarsi per quello che sono, con tutti i loro pregi e i loro limiti, più sono felici. Analogamente, quanto più una persona ritiene di poter ragionevolmente controllare gli eventi che gli accadono nella sua vita affettiva, sociale, lavorativa, più è felice, e in particolar modo, è più felice di chi si considera in balia del caso o degli altri.

Felicità e benessere

Gli stati d’animo positivi possono influire in modo considerevole sia sul comportamento sia sui processi di pensiero rendendoli maggiormente adeguati e funzionali alle situazioni di vita dell’individuo. E’ poi ovvio che tutto questo si ripercuota positivamente sullo star bene dell’individuo con se stesso e gli altri.
In effetti quando le persone sono di buon umore pensano alle cose in modo molto diverso rispetto a quando sono di cattivo umore. Ad esempio, si è trovato che il buon umore porta a descrivere in modo positivo gli eventi sociali a percepirsi come socialmente competenti, a provare sicurezza in se stessi e autostima (Bower , 1983). Inoltre quando si è felici si tende a valutare più positivamente la propria persona: ci si sente pieni di energia, si considerano meno gravi i propri difetti e si pensa meno alle proprie difficoltà. In ultimo, si è visto che più si è felici più si curano e si allargano i propri interessi sociali e artistici, si pone maggiore attenzione alle questioni politiche generali, ci si sente più inclini ad accettare dei compiti nuovi e stimolanti, anche se difficili (Cunningham , 1986; 1988).

Da questo punto di vista non c’è da stupirsi che uno stato emotivo positivo induca all’ottimismo : Mayer e Volanth (1985), infatti, hanno trovato una correlazione diretta tra grado di buonumore e probabilità stimata di eventi positivi.
Essere felici induce anche ad essere più audaci . A questo proposito, Isen e Patrick (1983) hanno messo in luce come la gioia tendenzialmente porti a sottovalutare la gravità dei rischi e quindi porti ad agire in modo meno prudente.
In ogni caso si è anche visto che questo accade solo se la decisione da prendere non comporta dei rischi seri. In presenza di uno stato d’animo positivo, non solo il mondo sembra più colorato e desiderabile e le azioni più facili, ma anche le persone che ci circondano sembrano migliori. E’ forse per questo che molti esperimenti rilevano come le persone felici siano più disponibili, generose e altruiste e provochino negli altri una maggior simpatia.
In ultimo, per quanto riguarda gli aspetti cognitivi, si è visto che il buon umore ha degli effetti positivi sulle capacità di apprendimento e di memoria e sulla creatività: in sostanza quando si è felici si apprende con più facilità, in misura maggiore e in modo più duraturo (Ellis , Thomas e Rodriguez , 1984; Ellis , Thomas McFarland e Lane , 1985) e inoltre si è maggiormente creativi nella soluzione dei problemi.

 

FELICITA’: istruzioni per l’uso

A questo punto, visti i vantaggi che essere felici comporta, ci si potrebbe chiedere se esistono delle strategie che ci aiutino a sentirci felici o a recuperare il buonumore quando lo si è perso. In questo senso D’Urso e Trentin (1992) riportano una serie di attività e atteggiamenti che si accompagnano o favoriscono uno stato di benessere. Tali attività o atteggiamenti sono:

  1. non attribuire interamente a noi stessi la responsabilità degli eventi spiacevoli che ci capitano
  2. stare in compagnia di persone felici
  3. fare esercizio fisico
  4. non confrontare la nostra condizione (salute, bellezza, ricchezza ecc.) con quella degli altri
  5. individuare quello che ci piace nel nostro lavoro e valorizzarlo
  6. curare il corpo e l’abbigliamento
  7. riconoscere i legami tra cattivo umore e cattivo stato di salute: spesso è il malessere fisico, più che altri fattori oggettivi, a determinare un cattivo umore
  8. dimensionare le nostre aspettative alle capacità e alle opportunità medie della situazione
  9. aiutare le persone a cui piace essere aiutate
  10. non fare progetti a lunga scadenza
  11. frequentare le persone che ci hanno fatto dei piaceri e alle quali abbiamo fatto dei piaceri
  12. non trarre conclusioni generali dagli insuccessi
  13. fare una lista delle attività che personalmente ci fanno stare di buon umore e praticarle

La rabbia ed i suoi effetti

La rabbia è un’emozione tipica, considerata fondamentale da tutte le teorie psicologiche, insieme alla gioia e al dolore, è una tra le emozioni più precoci; il bambino che non è coccolato dalla mamma ha come reazione il pianto che equivale allo sfogo della rabbia.

Moltissimi risultano essere i termini linguistici che si riferiscono a questa reazione emotiva: collera, esasperazione, furore ed ira rappresentano lo stato emotivo intenso della rabbia; altri invece esprimono lo stesso sentimento ma d’intensità minore, come: irritazione, fastidio, impazienza.

C’è chi dice di non arrabbiarsi mai, e chi è sempre pronto a scattare. La rabbia è la reazione ad un limite, esprime il bisogno, molto vitale, di affermare il proprio Io: i bambini si arrabbiano violentemente, con le cose, con i divieti e le persone.
Come tutte le emozioni, la rabbia non è mai giusta, o sbagliata: c’è, e bisogna prenderne atto, comprenderla, e gestirla al meglio. Chi riesce a mettere la sordina alla rabbia, non sempre ne ricava benessere, perché si tratta di un segnale molto importante: che qualcuno o qualcosa sta calpestando il nostro Io.
Reprimere le manifestazioni d’ira è nocivo alla salute psicofisica: depressione, problemi psicosomatici come l’ulcera e l’emicrania possono colpire i troppo accomodanti.
Chi invece esprime la rabbia, al di là dello sfogo catartico entro poco tempo, si trova ad affrontare grossi disagi relazionali. Soprattutto se a scatenare l’emozione sono conflitti con genitori, partner, e colleghi; di solito, più è intensa la relazione, più violenta è l’aggressività che si scatena nei contrasti.
Inghiottire la rabbia fa male, gridarla anche. Esplodere non è poi terribile, come alcuni temono, soprattutto fra le donne, ma comunque di solito è inutile, non risolve, ma perpetua il problema e, infatti, si tende poi ad arrabbiarsi di nuovo e ancora, per lo stesso motivo.

Molto spesso capita di avere a che fare con persone capaci e intelligenti, ma che allo stesso tempo si possono mostrare arroganti e incapaci nel relazionarsi in maniera cortese ed educata con gli altri. Questi soggetti sono privi di quella che in psicologia è chiamata intelligenza emotiva.
L’intelligenza emotiva può essere definita l’intelligenza del cuore. E’ responsabile della nostra autostima, della consapevolezza dei nostri sentimenti, pensieri, emozioni; presiede alla nostra sensibilità, all’adattabilità sociale, all’empatia, alla possibilità di autocontrollo. Essere dotati d’intelligenza emotiva significa riconoscere i sentimenti, così da esprimerli in modo appropriato ed efficace.
Nella quotidianità di tutti i giorni possono capitare piccoli avvenimenti per i quali si scatenano emozioni a volte sconosciute; può accadere che un collega vi prenda in giro, o che qualcuno trovi posto nel parcheggio che avevate visto voi, ma d’impulso avete pensato di non reagire. L’offesa è evidente e voi pensate: “Adesso dovrei arrabbiarmi” ma la reazione non arriva. Molte persone, per lasciarsi andare, hanno bisogno di sperimentare che non succede nulla di grave se si perde il controllo.
Spesso alla rabbia apparentemente non si reagisce; ma non è detto che questo sia realmente ciò che accade; la mancata reazione può essere dovuta al negato contatto emotivo con il sentimento rabbia, quindi si arriva all’alessitimia, ovvero l’incapacità di sentire sul piano emotivo le emozioni, le quali vengono fatte scivolare direttamente sul corpo fino a somatizzarle; capita così di avere mal di pancia o mal di testa senza cause organiche, fino ad arrivare a vere e proprie patologie.
Il sentimento rabbia viene negato a livello inconscio e la persona può, ad esempio, mettere in atto atteggiamenti o comportamenti sostitutivi e/o di copertura del sentimento negato, parliamo quindi di compulsioni (pensieri o comportamenti) e rituali(lavare le mani continuamente, controllare numerose volte di aver chiuso porte e gas).
La maggior parte delle volte però può capitare il contrario; l’eccessivo sfogo delle proprie emozioni e il mancato controllo della rabbia può arrecare conseguenze negative a se stessi e agli altri. Prendere tutto come un attacco personale, sentirsi messi in discussione solo per la scortesia di una commessa o feriti per la disattenzione di un collega è l’inizio dell’iter che percorriamo ogni qualvolta si innesca il meccanismo “rabbia”.
Ma perché ci arrabbiamo?
Una delle tante spiegazioni che si danno alla rabbia è riferita ad un passato lontano dove non c‘ entrano né commesse né colleghi, ma fantasmi che appartengono alla nostra infanzia. Questa teoria ci riporta qualche tempo fa, quando i nostri genitori non ci hanno fatto sentire abbastanza apprezzati e sostenuti; è proprio allora che sono nati il dolore e questa rabbia, che sfugge al controllo e che spinge a reagire esageratamente di fronte alla più piccola frustrazione.
Secondo la maggior parte degli studi effettuati al riguardo i casi più frequenti di mancato autocontrollo sono stati identificati in soggetti che hanno avuto genitori critici , intolleranti e svalutanti, togliendo quella sicurezza senza la quale si resta indifesi come bambini, in balia dei giudizi e delle conferme degli altri. E se queste conferme non arrivano ecco che rimonta la voglia di protestare per questo amore che ci è stato negato. Non è facile ammettere che siamo noi a sentirci inadeguati quando sembra più accettabile dare la colpa agli altri, e la soluzione non è sicuramente nell’accusare mamme e papà, ma nel recuperare il bambino che è in noi e fargli fare pace con la nostra parte adulta.
Studi effettuati dall’Università del Michigan dimostrano che il 25% dei casi di malattie cardiache sono dovuti all’eccessiva perdita di controllo in una esagerata reazione fisica alla rabbia. Insomma arrabbiarsi poco può essere dannoso, ma anche arrabbiarsi troppo ci fa correre parecchi rischi.
Nel frattempo si deve cercare di esplicitare il proprio disagio al meglio, evitando che l’interlocutore si senta aggredito. Molti ragionano come se le emozioni fossero controllate da un interruttore: on-off, dico-non dico. Ma esistono anche posizioni intermedie, vale a dire esprimere nel modo migliore le proprie emozioni, anche negative. Essere diretti e sinceri non significa necessariamente ferire gli altri.
Come ci dobbiamo comportare? Quando siamo nervosi, arrabbiati possiamo scaricare la tensione con attività fisiche: frequentare una palestra, praticare sport, partecipare al tifo della la propria squadra del cuore, lavorare manualmente, ecc. Se ci sentiamo contratti, “legati”, può essere utile farsi massaggiare, qualunque sia la tecnica usata,con un buon rilassamento.
Se il malessere tende alla cronicizzazione significa che vi è un comportamento, uno stile di vita ormai consolidato su cui occorre lavorare più approfonditamente con una psicoterapia e con l’ausilio, preferibilmente, di medicine naturali. Ritengo che una via intermedia debba essere ricercata e secondo me consiste nell’essere consapevoli il più possibile del nostro vissuto emotivo e nel costante dialogo sia all’interno che all’esterno di noi.
La rabbia appartiene alla sfera delle emozioni. Si tratta di un’esperienza forte e molto comune che ognuno vive secondo le proprie specificità individuali.
Nel conflitto, specie interpersonale ed educativo, la rabbia compare come elemento perturbante che spesso impedisce la relazione e il confronto; la gestione emotiva della rabbia è pertanto una necessità imprescindibile per poter affrontare i conflitti con competenza ed efficacia.
Anche in ambito educativo si tratta di imparare a dialogare con la propria rabbia per trasformarla in una relazione conflittuale e quindi gestibile. La rabbia va usata per dare energia a una richiesta basata sui propri desideri, non per cercare di stabilire come l’altro deve comportarsi.
Il primo passo per cercare di allearsi con la propria rabbia è ascoltarla bene, e cercare di capire chiaramente il suo messaggio: dove ci sentiamo colpiti, cosa vorremmo. Una volta definita, con calma, la posizione che riteniamo giusta per noi, possiamo affermarla assertivamente.

(articolo di Luigi Matronardi)

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Presto creerò una pagina Facebook riguardo gli articoli e i post inseriti su questo sito, che fungerà da rapido e spero utile puntatore social.

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